Editoriale 9 dicembre
L’editoriale di questo mese vuole dare un’analisi sulla lotta per la casa che si stà estendendo sempre più nelle città di tutta Italia, cercando di riportare quelle che sono le ultime misure e proposte di attacco che il Governo ha messo in campo per arginare le conquiste che fino ad ora sono state raggiunte.
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700 mila famiglie in lista di attesa da anni per vedersi assegnare una casa popolare, 40 mila case di edilizia residenziale pubblica vuote e un numero di sfratti esecutivi da parte degli organi giudiziari nei confronti di numerose famiglie, per lo più in stato di morosità incolpevole, che aumenta drammaticamente di mese in mese: solo a Padova, piccola cittadina del così detto “ricco nord-est” gli sfratti nell’anno 2014 sono circa 4 al giorno, mentre a Milano proprio in queste settimane il Comune ha predisposto l’esecuzione di sfratto per centinaia di famiglie.
Questi sono solo alcuni dati che marginalmente rendono l’idea di quello che è definito “problema abitativo” in Italia.
Al di là delle cifre snocciolate, è da tenere ben presente il dato reale: migliaia di famiglie in questo paese non riescono più a permettersi di pagare o pagare integralmente un affitto a prezzo di mercato a causa della perdita del lavoro, quindi numerosi nuclei famigliari vengono di fatto buttati fuori di casa, molto spesso tramite l’intervento della forza pubblica.
Quello che si può trarre da questa situazione è che vige un estremo bisogno di alloggi a canone sociale da mettere a disposizione per tutte quelle famiglie che sono in difficoltà economica a causa della crisi. Questi alloggi in realtà sono presenti ma le istituzioni e gli enti gestori (Ater, Aler etc.) non li rendono accessibili a causa della mancata manutenzione o a causa della volontà di vendere parte di questi appartamenti a prezzo di mercato. Rispetto alla gestione dell’Ater di Padova ad esempio, come messo in luce dall’inchiesta della magistratura denominata “pantano”, non solo le assegnazioni delle case venivano effettuate in modalità clientelare e pilotate per privilegiare esponenti politici e istituzionali, ma il sistema di corruzione e di tangenti hanno prodotto una voragine economica che ha dettato una politica di dismissione degli alloggi: dall’assenza di manutenzione delle case alla loro svendita sul mercato.
Di fronte a questo scenario, il governo Renzi, in continuità con i precedenti governi, ha messo in atto una serie di misure specifiche che vorrebbero risolvere questa situazione, il tanto citato “Piano Casa” che di fatto attacca le occupazioni abitative, rendendo legale il distaccamento delle utenze e l’impossibilità di ottenere la residenza per chi occupa una casa, lasciando la gente senza acqua, gas, luce e soprattutto creando seri problemi per l’accesso alla sanità o all’istruzione in particolare per i figli. Tutto ciò avviene in risposta alle mobillitazioni e alle lotte che si sono estese su tutto il territorio nazionale che hanno espresso una capacità organizzativa nella riappropriazione di numerosissimi alloggi sfitti, nella difesa delle famiglie sotto sfratto e nell’ opposizione alle politiche di miseria delle istituzioni.
Ma andando a cercare meglio, in realtà il governo sta mettendo in piedi delle politiche che incentivano la messa in vendita di una fetta consistente di palazzine di edilizia pubblica ( ex IACP, comuni, Ater, Aler, Arte etc.). E’ stato infatti dato il via da parte della Conferenza Stato/Regioni ad una proposta di decreto del Ministero delle Infrastrutture e a quello degli Affari Regionali che prevede la dismissione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica a livello nazionale (800 mila alloggi in totale), permettendo la privatizzazione di questo settore per creare un altro mercato dove incentivare così la speculazione immobiliare.
In breve il decreto dice che :
– La predisposizione da parte degli enti proprietari, entro quattro mesi dalla sua pubblicazione sulla G.U., di specifici programmi di alienazione dando priorità ai condomini misti con proprietà pubblica inferiore al 50%, agli alloggi degradati e fatiscenti (venduti in blocco), o degli alloggi i cui oneri di manutenzione e ristrutturazione siano insostenibili per l’ente proprietario;
-L’effettuazione della vendita mediante bandi ad asta pubblica, che partirà dal prezzo di mercato stabilito dall’O.M.I. e determinato da una perizia tecnica dell’ente gestore;
-Il diritto di prelazione, entro appena 45 giorni, agli assegnatari in regola con i requisiti di permanenza che potranno acquistare al prezzo stabilito dall’asta;
– Il trasferimento coercitivo in altri alloggi di chi non può acquistare i propri alloggi ma che è in regola con i requisiti e con i pagamenti.
Da tenere ben presente è l’origine delle palazzine di cui si sta parlando, l’edilizia residenziale pubblica è stata costruita negli anni con i soldi pubblici, la loro proprietà è infatti di tutti i lavoratori e le lavoratrici che hanno versato contributi anche per la costruzione e la manutenzione di questi alloggi. In realtà, volendo chiamare le cose come stanno, la volontà di svendere questo patrimonio pubblico è un atto di rapina sociale portato avanti dal governo e dagli interessi delle lobby del cemento che lo sostengono.
Il “problema abitativo” va però contestualizzato e ricollegato alla situazione di crisi e in particolare alla condizione che oggi sempre più si stà consolidando: la possibilità di avere un lavoro stabile non fa più parte della vita di un numero crescente di persone. Tutti gli attacchi condotti negli anni nei confronti del mondo del lavoro, hanno prodotto infatti un’insicurezza e un’instabilità economica che spingono sempre più famiglie a tagliare alcuni “capitoli di spesa”, il primo di questi è l’affitto della propria casa, preservando invece le spese per il sostentamento, la sanità e l’istruzione per i figli. Questo “tirare la cinghia” probabilmente non è proprio quello che “qualcuno” si aspettava, il problema abitativo è infatti diventato ben presto una lotta per l’abitare e nel giro di qualche anno si sono consolidate e generalizzate alcune pratiche, dall’autoriduzione dell’affitto alla resistenza agli sfratti, fino all’occupazione degli appartamenti o di intere palazzine lasciate vuote e abbandonate. Sempre più persone a livello nazionale stanno esprimendo la volontà di prendere in mano la propria esistenza e di non subire più passivamente le condizioni di miseria verso cui questo sistema ci stà portando.
In risposta a questa emergenza sociale il governo ha saputo mettere in campo solo provvedimenti giudiziari nei confronti dei compagni, l’uso smodato dei suoi apparati represivi anche contro inermi famiglie ha portato poi a conseguenze estreme, come successo poco tempo fa a Milano dove una donna incinta che si difendeva da uno sgombero ha subito la perdita del bambino a causa dell’intrvento della polizia. Questo è lo scenario che si stà sviluppando nelle periferie metropolitane, voluto dalle istituzioni e annunciato da una campagna mediatica di criminalizzazione dell’occupante o dell’abusivo, finalizzato a preparare il terreno per centinaia di sgomberi e sfratti nei quartieri periferici delle città, cercando di creare contrapposizioni tra gli occupanti delle case e gli abitanti dei quartieri. Un tentativo di foraggiare la “guerra tra poveri”, che però ha trovato da subito una resistenza portata avanti dagli stessi abitanti coesi contro l’intervento della forza pubblica, rendendo il piano di sgomberi non eseguibile con tanta facilità e nel breve periodo come progettato dalle istituzioni.
Una riflessione generale rispetto al caso specifio della “lotta per la casa” deve comunque essere fatta al fine di saperla ricolllegare ad altri settori di lotta e quindi per meglio svilupparla e difenderla. Se da un lato la lotta che si esprime attorno alla questione abitativa ha saputo creare consensi e solidarietà attorno a se, dall’altro lato rimane il pericolo che si esaurisca solo nell’opposizione alle politiche abitative del governo. Anche se poi alcuni passi avanti su questo punto si sono verificati, come ad esempio l’unione tra il movimento di lotta per la casa e i lavoratori della logistica in lotta da Bologna a Livorno, la questione del saper costruire una dimensione politica unitaria di lotta, partendo dai vari settori e ricollegandoli l’uno all’altro, rimane. Un punto di partenza è comunque stato segnato, proprio li dove questi due segmenti si sono collegati, rafforzandosi l’uno con l’altro e individuando un unico nemico comune nella classe dominante che specula sulle nostre vite.