Editoriale 25 maggio

Il terzo editoriale di Radiazione è dedicato al mondo del lavoro e in particolare al famoso Job Acts di Renzi. Un decreto che si porta dietro ancora più precarietà e sfruttamento. Ma cosa contiene esattamente il Job Acts? E quali manovre si muovono nel mondo delle fabbriche mentre tutti gli occhi sono puntati sugli 80 euro in più in busta paga? L’editoriale di Radiazione, condotto questa volta dalle due voci della trasmissione operaia Senza Padroni, vi propone un’analisi di classe su Job Acts e lotte dei lavoratori partendo da un’intervista a un operaio Electrolux.

Editoriale Maggio 2014

 Con l’insediamento, il 22 febbraio scorso, del nuovo governo del decisionista Renzi, c’è stata una accelerazione da parte della borghesia nel processo di ristrutturazione giuridico-politica dello stato, del bilancio della spesa pubblica, della continuazione delle controriforme sul lavoro.

La necessità di “governabilità”, soprattutto in questa fase di crisi acuta del sistema economico, da parte della classe dominante, si sta profilando con la nuova legge elettorale e con l’ipotesi di riforma del Senato. Interventi questi che vengono demagogicamente propagandati come necessari per diminuire gli sprechi, tagli alle spese politiche, maggiore governabilità e quindi più efficienza. Ma la realtà è ben diversa: l’obiettivo è di garantire alla compagine governativa al potere, e quindi a quei settori della borghesia attualmente al governo, di eliminare possibili situazioni di stallo nei processi decisionali. Un cambiamento profondo dell’attuale forma costituzionale che fino ad ora la classe borghese si era data, resosi necessario dall’impellenza della crisi e dalla necessità di avere governi efficaci e veloci nel prendere le misure per la difesa degli interessi dei padroni.

Quello che tutti gli esecutivi di questi ultimi anni hanno attuato, invece, sono gli attacchi alle conquiste dei lavoratori e al salario, in particolar modo tramite il governo Monti. Anche il governo Renzi non fa eccezione.

Il 22 marzo scorso alla camera è cominciata la discussione sul decreto lavoro firmato dal ministro Giuliano Poletti (rappresentante in primis degli interessi delle grandi cooperative). Il provvedimento fa parte del Jobs Act, il piano di riforme sul mercato del lavoro annunciato per la prima volta l’8 gennaio dall’allora solo segretario del Pd Matteo Renzi, personaggio sostenuto e appoggiato dalla dirigenza di Confindustria nella persona di Squinzi.

Il decreto approvato dal Parlamento finora riguarda la liberalizzazione dei contratti a termine e dell’apprendistato.

·         Per i contratti a termine viene alzata da un anno a tre anni la durata dei contratti senza causale, cioè quelli per cui non è obbligatorio specificare il motivo dell’assunzione e quindi la causa di un eventuale licenziamento. La forza lavoro assunta con questo tipo di contratto non potrà essere più del 20% del totale dei dipendenti; per le aziende inadempienti rispetto a questo limite è previsto solo il pagamento di una sanzione e non l’obbligo di assunzione dei lavoratori. I contratti a tempo determinato si potranno rinnovare fino a un massimo di cinque volte in tre anni. Non c’è l’obbligo di pausa tra un contratto e l’altro.

·         I contratti di apprendistato avranno meno vincoli, ma è stato reintrodotto l’obbligo per i datori di lavoro di assumere a tempo indeterminato alcuni apprendisti per poi poterne prendere di nuovi. L’obbligo di stabilizzazione riguarda solo le aziende con almeno 30 dipendenti e la quota minima di apprendisti da trasformare a lavoratori a tempo indeterminato è il 20%. La busta paga base degli apprendisti sarà pari al 35% della retribuzione del livello contrattuale di inquadramento (ossia la paga prevista per una specifica cattegoria): un vero e proprio salario di ingresso per i giovani lavoratori.

La formazione pubblica per l’apprendistato (corsi specifici) sarà di nuovo obbligatoria, a condizione che la regione provveda a comunicare al datore di lavoro come sfruttare l’offerta formativa entro 45 giorni dall’inizio della firma del contratto. Il datore dovrà quindi integrare la formazione aziendale con quella pubblica.

Le donne che restano incinte durante un contratto a tempo determinato possono conteggiare anche la maternità come durata del contratto, superando così la soglia dei sei mesi (durata minima che la legge vigente richiede per il riconoscimento del diritto di precedenza). E se un’azienda assume nei dodici mesi successivi, le donne in congedo maternità hanno la precedenza.

Fino a ora questi sono i temi approvati in via parlamentare, mentre restano ancora aperte le discussioni su altre questioni contenute nel Jobs Act riguardo l’eliminazione degli ammortizzatori sociali e l’introduzione di un sussidio di disoccupazione uguale per tutti, sulla nuova forma di contratto unico.

Queste misure avranno tempi di approvazione più lunghi. Il disegno di legge dovrà essere convertito in legge delega dal parlamento e il governo dovrà dare attuazione delle norme in un tempo stabilito dalla legge stessa.

Inoltre nella parte approvata in via parlamentare vi è anche la elargizione dei famosi (e fumosi) 80 euro per i redditi inferiori ai 1500 euro mensili, anche se ad oggi sono in atto polemiche sulle reali coperture economiche di questa misura.

Proprio l’elargizione degli 80 euro sembra più un tentativo di “linea di massa” del governo per far ingoiare meglio alle masse popolari le misure antioperaie e antipopolari.

Questo è un esempio di riformismo reazionario che caratterizza il governo Renzi in una fase di tentativo di gestione della crisi, dando elemosine ai proletari, mentre aumentano i tagli e le privatizzazioni ai servizi (come trasporti, luce, gas, sanità) approfondendo gli attacchi alle masse popolari degli ultimi governi come il decreto Salvaitalia di Monti e la “riforma” delle pensioni Fornero.

Con la prevista controrifoma degli ammortizzatori sociali e l’eliminazione della cassa integrazione i padroni mirano a “togliere dalle spese” la manodopera in eccesso: nelle situazioni di crisi e di licenziamento si dà ai padroni la legittimità di mettere tranquillamente i lavoratori sulla strada, precari o fissi che siano, privati o pubblici, con un mini assegno di disoccupazione e senza il vincolo della cassa integrazione che teneva comunque legato il lavoratore all’azienda poiché non era licenziato.

Questo governo, nonostante la ostentata patina di trasparenza ed efficienza che vuole trasmettere all’opinione pubblica, continua i processi di attacco alle conquiste dei lavoratori e delle masse popolari, portato avanti negli ultimi anni dagli esecutivi di ogni colore che si sono succeduti.

Negli utlimi giorni è stato intrapreso anche un attacco ai “morti che camminano” confederali, in particolare rispetto alla Cgil, con dichiarazioni da parte del Renzi e del ministro dell’economia Padoan, di fine della concertazione. Constatazione di un dato di fatto, poiché se ben poco la concertazione aveva portato negli anni passati in termini di diritti e aumenti salariali ai lavoratori, tanto più era già finita con le manovre del governo Monti e la “riforma” Fornero, che sono passati senza che ci sia stata una minima opposizione dei sindacati confederali.

Ma le mire di questo decreto vanno ben oltre i confini nazionali, e sono in linea con tutte quelle riforme europee che hanno il fine di colpire e demolire il concetto di “lavoro fisso”. Poco importa se qualche volta Renzi fa la voce grossa tuonando contro la Merkel di turno; di fatto le sue riforme sono simili e comunque comode agli interessi europei e trovano appoggio nelle parole degli analisti della BCE.

Un’analisi più ampia ci porta però a non considerare il Job Acts, così come è stato inteso fino ad ora, come un decreto che cambi radicalmente le politiche sul lavoro; vediamo, infatti, una profonda continuità con i decreti precedenti che miravano a precarizzare sempre più il mondo del lavoro e che ora sta raggiungendo la punta più alta in tema di sfruttamento. Se dobbiamo proprio andare indietro negli anni allora ricordiamoci del “sinistro” Treu e di quel lontano 1997, quando il governo tecnico Dini nel suo “decreto contro la disoccupazione” diede il via alla precarietà. Dov’è la novità allora? La sensazione è che il Job Acts in realtà stia coprendo ben altri interessi e manovre incentrate in particolar modo sui processi industriali e produttivi.

Infatti, mentre politicanti e media si soffermano sugli 80 euro di Renzi o sulle nuove regole dell’apprendistato, intorno al mondo dell’industria si stanno muovendo passi da gigante in tema di sfruttamento, ritocco ai salari e ai carichi di lavoro. Ci riferiamo alla Fiat, con i continui piani di Marchionne che hanno speculato e sfruttato un’enorme fetta di classe operaia; oppure ai ricatti di Fincantieri, mirati a ritoccare orari e turnazioni degli operai; e ci riferiamo soprattutto a Electrolux, che con il ricatto del licenziamento sta ora portando a casa un bel po’ di produzione in più e pure qualche pausa in meno.

In tutto questo il governo Renzi tace, o meglio avvalla silenziosamente gli interessi strategici della grande industria. Se parliamo di capitalismo dobbiamo sempre avere un’attenzione in più rispetto al suo interesse principale: lo sfruttamento inteso come maggiore produttività con meno salario. Da questa formula intuiamo che oltre al Job Acts c’è un piano strategico che vuole disossare ancora di più la classe operaia. Ma non solo; la tendenza di tutto il mercato del lavoro va nella direzione della riduzione degli impieghi, e laddove resistono i posti di lavoro si assiste a un aumento dei carichi e dei ritmi con la sola differenza che prima una certa mansione si svolgeva in dieci, ora si svolge in cinque, magari anche di domenica. Chiamasi capitalismo. E il capitalismo genera sfruttamento ma anche lotta, una lotta che negli ultimi due anni ha preso vigore e che ha i suoi apici tra i “facchini” che lavorano nelle cooperative e che a suon di scioperi, picchetti, blocchi e manganellate stanno riuscendo a portare a casa buona parte dei diritti minimi che fino a poco tempo fa erano pura illusione.

Situazioni simili, ma più arretrate, stiamo iniziando a vederle anche nelle fabbriche e nelle piccole vertenze territoriali, dove gli operai stanno ricominciando ad assaporare il gusto di bloccare gli interessi padronali e, qualche volta, anche le strade, per rivendicare i loro diritti e la visibilità che i governi negano loro. La recente lotta degli operai Electrolux ci ha insegnato che bloccare un piano industriale fatto di licenziamenti è possibile, ma il prezzo da pagare sarà probabilmente alto e misurabile in carico di lavoro e orario; questo grazie all’assidua presenza e interferenza dei soliti dirigenti sindacali confederali che cercano continuamente di tenere buona la rabbia operaia incanalandola nell’ormai perdente logica della concertazione o dell’arrendevolezza. Ma se Renzi è costretto a versarci pure 80 euro in busta paga un motivo ci sarà: inizia a temere che questa classe operaia possa davvero incazzarsi da un momento all’altro e generare una scintilla in grado di incendiare gli animi dei lavoratori. Purtoppo per lui i capitalisti sono così affamati da voler mettere ancora le mani sui nostri salari, e quegli 80 euro varranno ancora meno dell’elemosina che rappresentano adesso. A quel punto il contentino non sarà più sufficiente e l’idea di Rivoluzione ricomincerà a girare nei capannoni delle industrie e tra le catene di montaggio.

Editoriale 25 maggio