Interviste

1MAGGIO: CONTRO EXPO, SFRUTTAMENTO E GUERRA LA LOTTA SARÀ DURA!!!

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Lo scorso Primo Maggio a Milano è stato inaugurato l’Expo 2015, un evento privato costato 10 miliardi, di cui 8 a carico dello stato, in perfetta continuità con le “grandi opere” utili solo ad ingrossare le tasche delle lobby del cemento: Expo è infatti la fiera del capitale a cui le multinazionali e gli stati imperialisti partecipano per rilanciare il proprio modello di “sviluppo” in questa fase, sempre più evidentemente basato sullo sfruttamento dei lavoratori nella politica interna e sulla rapina delle risorse e la guerra contro i popoli sul fronte internazionale. Per questo non ci stupisce che ospite d’onore a questa kermesse, che vede come protagonisti i peggiori affamatori dei popoli, sia Israele. Non a caso l’esperienza sionista che da più di 66 anni, con progettualità razzista e colonialista, porta avanti il progetto di pulizia etnica del popolo palestinese e ne occupa la terra, ha una posizione di rilievo schierando il suo padiglione a fianco di quello italiano, a indubbia testimonianza del profondo legame economico, politico e militare che lega i due governi. Fiumi di menzogne hanno innaffiato la pubblicistica sulla presenza di Israele all’Expo curata dagli organizzatori dell’evento: a dimostrazione della volontà di normalizzare l’occupazione sionista e di difendere gli interessi che legano le potenze imperialiste occidentali ad essa.

Ben lontano da essere un’opportunità di lavoro per i giovani e per l’Italia, come è stato spacciato su tutti i media, il modello Expo, incensato da Confindustria e Governo, è la massima espressione dello sfruttamento e del tentativo di ridurre al minimo il costo della forza lavoro. Questo piano di taglio dei salari si concretizza con la regolarizzazione, per quanto riguarda le forme contrattuali, della prestazione di lavoro non retribuita da un lato o sottopagata, come lo stage o il tirocinio dall’altro. Se infatti sono 195 gli stagisti previsti con un rimborso di 516 euro, 18.500 sono i lavoratori volontari che offrono il proprio tempo e le proprie energie in modo gratuito all’interno dei padiglioni dell’Expo, con la ricompensa di avere l’opportunità di “fare curriculum”. Questo colpo di spugna allo Statuto dei Lavoratori e ai diritti conquistati con decenni di lotte è stato inferto con l’immancabile sostegno di CGIL, CISL e UIL che il 23 luglio 2013 hanno firmato un protocollo di intesa ad hoc per regolamentare il lavoro all’interno dell’Expo, di fatto istituendo una zona di libero sfruttamento non molto diversa da quelle istituite da Erdogan in Turchia o dalle zone ad economia speciale presenti in Polonia, per attrarre i capitali stranieri a spese dei lavoratori. In pratica con questa operazione sindacati confederali e padroni hanno compiuto un altro passo sulla strada dell’eliminazione della contrattazione collettiva bypassando tutta la legislazione vigente sul lavoro per un dato tempo (i 6 mesi della durata dell’Expo) e in un dato luogo (i padiglioni dell’evento). Non dimentichiamo, oltre il danno anche la beffa: l’inaugurazione dell’Expo si è tenuta il 1 maggio, giornata che rappresenta le lotte che numerosi lavoratori hanno sostenuto, spesso anche con il sangue, per poter strappare diritti ai propri sfruttatori.

Come sappiamo bene, quando i padroni testano nuove forme di sfruttamento tendono poi a replicarle su larga scala: tale attacco quindi non va considerato isolato, ma va inserito nel quadro delle manovre che da anni i padroni sostenuti dai vari governi -loro comitato d’affari- hanno inferto ai diritti dei lavoratori. L’introduzione e la regolarizzazione del lavoro precario sono il risultato finale di un percorso di riforme che si è concretizzato negli anni, governo dopo governo, soprattutto ad opera di quell’area di partiti del cosiddetto centro-sinistra. Dai DS fino al PD di oggi il mondo del lavoro è stato riformato con un disegno ben preciso, per loro, che voleva arrivare al traguardo che i padroni sognano da sempre: estrarre più plusvalore dal lavoro, poter espellere facilmente dal processo produttivo i lavoratori che non abbassano la testa e saccheggiare i salari con le tasse e i tagli dei servizi. Anche il Jobs Act rientra in tale prospettiva perchè si concretizza nel rendere il più facile possibile il licenziamento dei nuovi assunti (il famoso svuotamento dell’Articolo 18). Con la precarizzazione del lavoro si ottiene anche un altro obiettivo ancora più importante per i padroni: quello di far sentire il lavoratore costantemente sotto ricatto. Così facendo tentano di zittire le lotte e isolare chi se ne fa promotore all’interno del posto di lavoro. Anche il demansionamento e la telesorveglianza, introdotti dal Jobs Act, rientrano nel giogo controllo-repressione. Ciò che va sottolineato è che, se nelle varie aziende queste misure erano già in parte applicate, ora è lo stato che, abbandonata la maschera dell’entità super partes, si fa garante delle esigenze di profitto dei padroni. Questa è la realtà che si sta configurando oggi e la legalità della “democrazia” che sempre più sfacciatamente mostra la sua unica natura di difesa degli interessi della classe dei padroni.

Più in generale si assiste ad un giro di vite del sistema di sfruttamento a danno di tutte quelle persone che hanno un lavoro, magari anche da più anni, e che vedono inasprirsi le proprie condizioni lavorative, venendo meno tutta una serie di tutele conquistate dalle lotte passate; ma anche a danno di quelli che non hanno un impiego, per i quali si prospetta un futuro di lavoro sotto pagato o addirittura non retribuito. Infatti altre manovre che mirano a scaricare sulle spalle dei lavoratori e dei proletari la crisi del sistema capitalista sono l’aumento della tassazione del TFR, la riforma degli ammortizzatori sociali che diminuisce la parte a carico delle imprese e gli sgravi fiscali per le aziende. Chiaramente se è il lavoro che viene a mancare, le condizioni di vita delle famiglie proletarie si fanno più dure sotto tutti i punti di vista, in primis diventa sempre più difficile per molti pagare l’affitto di una casa sul mercato privato. A questo si aggiungono i tagli continui sui servizi sociali più basilari come la sanità e la scuola, la riduzione delle pensioni, a fronte del continuo rifinanziamento delle missioni di guerra e delle spese militari (come ad esempio l’acquisto dei cacciabombardieri F35).

Questo è in sintesi il quadro in cui il 1 maggio diversi lavoratori, soprattutto del settore della logistica e per la maggior parte immigrati, si sono uniti con chi attualmente sta lottando contro gli sfratti o per avere una casa, assieme a disoccupati e giovani stanchi di subire un presente di sfruttamento, per contestare l’Expo come modello di sviluppo a cui la borghesia imperialista italiana e internazionale mira in questa fase di crisi strutturale del capitalismo. Il modello Expo è solo l’anticipazione di quello che i padroni hanno in serbo per il nostro futuro se non li fermiamo con la lotta: precarietà assoluta, salari sempre più bassi, la scusa della “formazione” per ottenere sgravi contributivi o per permettersi di non pagare nessuno stipendio. Mai come oggi si rende sempre più concreta la necessità di resistere ed opporsi a questo sistema, sempre più persone iniziano a vivere la miseria a cui ci vuole obbligare e prendono coscienza della natura di una lotta tra chi sfrutta e chi viene sfruttato. I lavoratori nel settore della logistica e delle cooperative hanno ad esempio indicato una strada percorribile, fatta di resistenza nei confronti degli interessi dei padroni e di solidarietà e unità tra tutti gli oppressi e le realtà che si sono messe a lottare, anche su diverse vertenze e in diversi settori sociali, inoltre è da prendere atto che i lavoratori della logistica sono riusciti ad ottenere dei miglioramenti delle proprie condizioni di lavroro, a evidenza del fatto che solo la lotta paga e lottando uniti, come hanno appunto dimostrato, si possono ottenere delle vittorie. È forse proprio questo il segno concreto che sta in qualche modo prendendo forma, anche se in forma embrionale: una coscienza collettiva che individua il proprio nemico nel sistema attuale.

La giornata del 1 maggio in sè ha visto la partecipazione numerosa di chi oggi lotta contro i propri sfruttatori: nonostante le provocazioni, le perquisizioni e gli arresti dei giorni precedenti, in piazza sono scese tutte quelle persone che già stanno resistendo e lottando sul proprio posto di lavoro, nel proprio quartiere o nel proprio territorio per opporsi alle scelte e agli interessi della classe dominante.

La costituzione e il possibile consolidarsi di questo fronte di lotta è probabilmente la preoccupazione principale di chi gestisce il potere, i tentativi di dividerlo per indebolirlo e disgregarlo ci sono sempre stati e sempre ci saranno, diffamazioni, denigrazioni e incitamento alla “presa di distanza” sono infatti gli obiettivi che l’informazione della classe dominante ha cercato di raggiungere nei giorni successivi alla manifestazione.

La rabbia che si è espressa a Milano durante il corteo è il risultato dell’oppressione e dell’insicurezza di non riuscire ad arrivare a fine del mese con il proprio stipendio, o di non riuscire a pagare l’affitto o le spese per sè o per la propria famiglia, è stata anche la rabbia di chi si vede di fronte ad un futuro sempre più incerto e precario. Chi è sceso in piazza il 1 Maggio a Milano subisce quotidianamente lo sfruttamento e ha deciso di non accettarlo e morire lentamente sotto i colpi della crisi, ha preso coscienza che è necessario tentare un cambiamento. In mezzo a tutta la campagna mediatica che si è scatenata in questi giorni, forse vale la pena ricordare, per quanti hanno preso la parola per prendere le distanze e dissociarsi riproponendo la solita litania sui “buoni e cattivi”, che è una questione di scelta: o si sta dalla parte di chi viene sfruttato e cerca di resistere e lottare o si sta dalla parte degli sfruttatori. Quelli che si sono indignati per le vetrine delle banche e che con le spugnette hanno pulito i muri di Milano delle scritte “Carlo vive” sono gli stessi che contribuiscono a lavare le mani insanguinate dei padroni colpevoli delle morti sui posti di lavoro, degli imperialisti che seminano morte, fame e distruzione dall’Ucraina alla Palestina, passando per la Libia, l’Aghanistan, l’Irak e la Jugoslavia. Gli stessi che non si scompongo per la morte dei proletari immigrati, che essa avvenga nel fondo del mare o nei CIE. Gli stessi che plaudono imperturbabili di fronte alle barbarie delle multinazionali che sull’altare del profitto immolano popoli e territori. Gli stessi che giustificano gli sgomberi delle case occupate da famiglie e degli spazi di aggregazione giovanile che escono dalle logiche del profitto e le operazioni repressive e i nuovi decreti “sicurezza”.

La rabbia che si è espressa a Milano non è però un caso isolato. Il 1 Maggio a livello internazionale è stato segnato dalla presenza nelle piazze di tantissimi lavoratori e studenti. A Istanbul 300 manifestanti sono stati arrestati in seguito agli scontri con la polizia che impediva al corteo di raggiungere piazza Taksim, luogo simbolo del movimento operaio turco e della lotta contro Erdogan. In Corea del Sud migliaia di persone sono scese in piazza a Seul contro le politiche del governo sul lavoro. In 400.000 hanno partecipato alle 470 mobilitazioni che si sono svolte in Germania. Contro la precarizzazione del lavoro e le politiche di austerità del governo spagnolo sono scese nelle strade di Madrid decine di migliaia di persone, mentre in Grecia, migliaia di disoccupati, lavoratori e studenti hanno manifestato ad Atene contro le misure “lacrime e sangue” imposte ormai da anni, governo dopo governo. A New York i lavoratori dei fast food hanno manifestato per i quindici dollari l’ora e la libertà di organizzazione nei luoghi di lavoro. A Oakland è stato bloccato il porto. In Argentina alla manifestazione dei sindacati in Plaza de Mayo, i contenuti del Primo Maggio si sono uniti alla solidarietà a Black Lives Matter e ai rivoltosi di Baltimora. Manifestazioni di massa anche in Messico, Cile, Colombia, Brasile e in tanti altri paesi. Appare quindi evidente che, a fronte del peggioramento della crisi strutturale del sistema capitalista, sempre più lavoratori e proletari prendono coscienza che è solo con la lotta che si può vincere.

Le origini del 1 Maggio

1 Maggio 1886: la classe operaia statunitense inizia uno sciopero generale per rivendicare la giornata di 8 ore e il miglioramento delle condizioni di lavoro. Nella città di Chicago le mobilitazioni continuano anche nei giorni seguenti e il 4 maggio le autorità ricorrono a cariche della polizia per disperdere i manifestanti che partecipano a un comizio in piazza Haymarket. In quel frangente esplode una bomba che uccide un poliziotto scatenando la feroce repressione con spari sulla folla. Alla fine si conteranno 11 morti, 4 manifestanti e 7 sbirri uccisi dal fuoco dei loro stessi colleghi, accecati dal furore repressivo. Il giro di vite contro il movimento operaio e i suoi dirigenti continua nei giorni e nei mesi seguenti, con centinaia di arresti. Otto avanguardie del proletariato di Chicago subiscono un processo farsa: tre vengono condannati al carcere a vita e altri cinque, che passeranno alla storia del movimento operaio come i “martiri di Chicago”, vengono condannati alla pena capitale, applicata l’11 novembre 1897. Sulla scia di questi avvenimenti e delle grandi mobilitazioni del movimento operaio nel mondo, il 1° Congresso della II Internazionale a Parigi, nel 1889, lancia per il Primo Maggio una grande manifestazione da tenersi in tutti i paesi e in tutte le città per imporre ai padroni le rivendicazioni operaie, a partire dalla limitazione per legge della giornata lavorativa a otto ore: nasce così la Giornata Internazionale dei Lavoratori.

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